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VIA ATTRAVERSO IL PESCE
MARMOLADA D'OMBRETTA - MARMOLADA
ITALIA




Parete Sud

Prima Invernale
Giordani Maurizio, Cipriani Paolo, Zenatti Franco, 16-20 marzo 1986
Difficoltà: ED+, 7°+, A4
Sviluppo 1220 m.
Tempo dei primi salitori in estate 30-35 ore

IL RACCONTO:
Un attimo di smarrimento. Dalla piccola apertura del sacco piuma entra un po' di luce; lo sguardo però si perde nel nulla. Guardo e non vedo niente. Non c'è l'azzurro del cielo, il grigio della roccia, il bianco della neve; solo un velato chiarore, niente altro.
La mia mente non è preparata a questo. Rifiuta una nuova delusione e per un momento resto intontito, come assopito; cerco di rimanere aggrappato più che posso al desiderio, alla speranza, come ad uno stupendo sogno già finito che a tutti i costi non voglio abbandonare.
Ricordo le stesse sensazioni, due anni or sono, quando con Giorgio ero arrivato molto in alto, a pochi metri dalla nicchia del «pesce», svegliandomi dal secondo bivacco in piena bufera di neve.
Una grossa delusione che speravo non si ripetesse in quest'occasione. Invece niente da fare. Durante la notte il tempo è cambiato e sicuramente già da qualche ora sta nevicando abbondantemente, almeno a giudicare dallo spessore del freddo manto che ci ricopre.
Una piccola nicchia, spaziosa quanto basta per ospitarci rannicchiati tutti e tre, ci offre riparo ma le continue slavine che cadono sempre più frequenti dall'alto causano vere e proprie nuvole di polvere gelida che invade ogni più piccolo spazio.
Franco e Paolo si destano altrettanto sconcertati da questa inaspettata situazione; dalla mite giornata di ieri ci troviamo ora in un autentico inferno bianco. Non siamo molto in alto: abbiamo percorso poco più di 250 metri di parete, bivaccando all'altezza di una lunga cengia, ma anche se tornare significherebbe solo calarsi per 6 corde doppie che già conosco, l'idea di uscire dal nostro seppur esile riparo ci sembra troppo azzardata. Ogni minuto sembra nevichi sempre più fitto ed un impressionante fiume bianco scende ora tempestoso lungo l'immensa bastionata. Sopra di noi l'intera parete ci scarica addosso il finimondo e non ci rimane altro da fare che rannicchiarci scomodamele attendendo un miglioramento. Per oltre 40 ore non ci muoviamo, ma la pazienza ha un limite e nonostante la violenza della bufera sembri tutt'altro che attenuata, ci buttiamo nella tormenta. Inizia così un'interminabile discesa e per tutto il giorno ci caliamo lungo la roccia ormai incrostata da uno spesso strato di ghiaccio dove nemmeno gli scarponi fanno presa; una situazione da incubo che si dissolve solo nel momento in cui arriviamo alla base. Non ho mai visto la Marmolada così malridotta; perfino gli strapiombi e le placche più lisce e verticali sono smaltate di ghiaccio mentre in basso vi sono più di due metri di neve fresca. Unico lato positivo è la bella sciata verso il rifugio Falier, ma la preoccupazione per questa nostra salita prevale su ogni altro pensiero.
Ormai mancano meno di 10 giorni alla fine dell'inverno ed una sola ultima possibilità rimane a rinforzare le nostre speranze.
Sabato prossimo ritentiamo.
Da quanto tempo mi preparo per quest'ascensione; sembra un'eternità. Ma certo la via «Attraverso il pesce» non è da sottovalutare; anzi. Due sole ripetizioni portate a termine a fatica dalle più forti cordate del mondo occidentale. In estate naturalmente;
nella stagione fredda credo che niente vi sia di più difficile.
Oltre al gelo, al ghiaccio, alla neve, alle giornate brevi infatti vi è il più grosso impedimento; le difficoltà tecniche. Qui non si chioda e dove è 7° grado superiore d'estate lo stesso grado si deve superare anche d'inverno, e lo si deve superare assolutamente in arrampicata libera. Nei tratti in artificiale poi non si sale su ancoraggi sicuri ma su cliffhänger al limite della tenuta.
Il massimo in tutti i campi per un itinerario che ha fatto epoca; un capolavoro in roccia che rimarrà a fare testo nella storia dell'alpinismo.
Un progetto ambizioso al quale però non voglio rinunciare assolutamente. Se fino ad oggi ho desistito è stato solo per le cattive condizioni meteorologiche e questo mi lascia ancora speranza. In un inverno doveva pur fare quattro giorni consecutivi di bel tempo.
Le previsioni sono buone ma, sembra incredibile, ancora una volta ci avviciniamo al rifugio Falier sotto una copiosa nevicata. Abbiamo i giorni contati e domani attaccheremo a tutti i costi anche se sembra assurdo dato lo stato della parete.
Con me vi è ancora Franco, valido ed esperto alpinista, compagno nelle mie più belle e difficili avventure e Paolo, giovanissimo ragazzo, al quale però non mancano certo forza, spirito e capacità adatte per questa salita. La loro simpatica presenza vivacizza l'ambiente, reso cupo dalle avverse condizioni del tempo.
Fortunatamente però i meteorologi non hanno sbagliato ed una splendida alba accompagna il nostro risveglio. Tutto è bianco e gelato ma confidiamo nei caldi raggi del sole che in poco tempo dovrebbero sistemare le cose. Con calma prepariamo il materiale sulla prima cengia che raggiungiamo in poco tempo.
Le difficoltà nella prima parte non sono elevate, domani però ci aspetta la grande placconata dove incerto è se riusciremo o no ad arrivare al bivacco nella nicchia a forma di «pesce», unica depressione che incide l'immenso specchio grigio sovrastante.
Un cielo limpido preannuncia la bella giornata; attacchiamo così decisi per il diedro che segna l'inizio del muro più compatto. Velocemente, seguendo incredibili successioni di piccoli buchetti nella roccia, arriviamo all'inizio del fatidico traverso, unica porta aperta verso l'alto; siamo molto affiatati ed usiamo un sistema di progressione ideale che ci fa risparmiare tempo rispetto ad una cordata di due persone. Trovato il percorso ed arrivato alla sosta recupero Franco che, arrampicando, mi raggiunge nel minor tempo possibile; posso quindi ripartire subito mentre franco mi assicura
contemporaneamente a Paolo che, un po' arrampicando, un po' risalendo le corde, recupera anche lo zainone con il materiale da bivacco. In questo modo non perdiamo tempo inutilmente, cosa che ci deve permettere di arrivare alla meta odierna prima del calare della notte. Fin qui è però stato un gioco; le vere difficoltà, quelle che hanno resa famosa questa via, iniziano proprio ora.
Inutile a questo punto accennare ad ogni passaggio, ad ogni singolo movimento, tanto si somigliano per impegno e pericolosità; va però detto che un simile allucinante modo di procedere non me lo sarei proprio aspettato. Va bene per il 7° grado superiore senza protezioni, quello lo avevo preventivato, certo però non pensavo al rischio
nell'artificiale, veri e propri passaggi con il fiato sospeso su cliffhänger al limite della tenuta e spessissimo con 10, 15 metri di corda libera. Chiodi in parete nemmeno a pensarci, piantarne altrettanto utopico ma quel che è peggio è che quei pochi posti dove è possibile incastrare qualcosa sono stati devastati nelle precedenti schiodature e questo rende eccezionalmente difficile la progressione. Dove la relazione parla di A1, incredibile fantasia, trovo passi che sicuramente arrivano all'A5 mentre a questi si alternano tratti che a tutti i costi vanno superati in arrampicata libera; naturalmente anche qui la più vicina protezione è spesso ad una distanza tale da farla apparire ridicola. Un'enorme fatica, spesa più che altro per controllare la paura di voli devastanti, mi accompagna verso l'ultimo tiro prima del «pesce» dove, per il colmo della «fortuna», una piccola cascata, da poco tramutatasi in ghiaccio, interrompe la continuità del calcare. Il calore del sole ha sciolto in alto la neve sulla cengia ed una piccola caduta d'acqua è scesa per un centinaio di metri solidificandosi immediatamente al tramonto, fra poco sarà notte e devo togliere dallo zaino il frontalino per poter procedere. Sotto la spessa crosta di ghiaccio trovo alcuni provvidenziali buchetti che accettano dei buoni cliffhänger; in meno di un'ora, ormai completamente al buio, arrivo così alla sospirata piazzola dove mi ancoro allo spit di sosta. Le due grosse nicchie, la testa e la coda del «pesce», sono colme di neve e questo faciliterà il nostro bivacco dato che potremo spianare orizzontalmente il terreno per sistemarci nei sacchi piuma. Con rocambolesche manovre di corda anche Franco e Paolo mi raggiungono; siamo stremati e subito sistemiamo il materiale per poterci scaldare qualcosa di caldo. A questa quota, appena il sole sparisce all'orizzonte, la temperatura arriva subito ad alcune decine di gradi sotto lo zero.
Un leggero dormiveglia, dal quale esco spesso per osservare il cielo, sempre limpido e pieno di stelle, mi accompagna all'alba.
I primi raggi di un tiepido sole accarezzano le ali di un corvo che, incuriosito, volteggia davanti alla nicchia. Mi chiedo cosa penserei se fossi quell'animale vedendo tre disperati così al di fuori del loro ambiente di vita. Certo lo troverei abbastanza assurdo. Ma è la natura dell'uomo a portarlo nei posti più impensati, a soffrire per soddisfazione personale, curiosità, interesse; tutti aggettivi che certo si adattano anche alla nostra situazione.
Poi ricomincia il gioco; sopra il «pesce» la placconata continua, ancora più verticale, più levigata, più impressionante. Sembra che in alto si giri a volta, come ad imprigionarci in questo grigio mare che sembra insuperabile.
Ancora buchetti, spesso quasi invisibili, ancora paura, rischio, ancora ansia. Ogni volta che carico un cliffhänger o mi lancio verso l'alto in arrampicata libera raccomando ai miei compagni di stare attenti, di essere pronti a fermare una mia probabilissima caduta; alla fine non sarà possibile nemmeno fare un'approssimazione di quante volte io abbia parlato loro in questo modo.
Ogni tanto una clessidra mi concede un attimo di riposo, soprattutto psicologico, poi ancora stress. Fermandomi sul cliffhänger potrei anche tentare di mettere qualche chiodo, provando in ogni buchetta fino a quando uno lo accetti, ma devo anche fare i conti con l'orologio. Questa operazione mi richiederebbe sicuramente più di un'ora per ogni rinvio ed io non posso permettermi questo spreco di tempo prezioso. La riuscita dell'ascensione dipende dal fatto che stasera si arrivi alla comoda cengia in alto, alla fine delle difficoltà puramente tecniche, e siccome so che nemmeno Mariacher, in estate, è riuscito in questo, sono particolarmente preoccupato e cerco di essere il più veloce possibile.
La relazione da anche una calata a corda, ma raggiunto il probabile punto di ancoraggio non trovo nulla che mi possa permettere tale manovra. A fatica incastro due chiodi in un buchetto slabbrato poi, trattenendo il fiato, alcuni movimenti verso la fessura di sinistra, raggiunta la quale tiro un non indifferente sospiro di sollievo.
Un altro tiro di corda poi la peggiore delle sorprese; l'ultima fessura, quella che dovrebbe condurmi alla cengia, incanala l'acqua che anche ieri mi ha infastidito parecchio, fa molto freddo e non riesco a rendermi conto di come il sole abbia potuto sciogliere la neve. Un po' titubante mi butto sotto la cascata accorgendomi che man mano che il liquido mi cade addosso si gela al contatto con gli indumenti ed il materiale che mi pende dall'imbrago. In poco tempo sono trasformato in un blocco di ghiaccio che fatica a muoversi. Per il resto della salita dovrò rinunciare al maglione che mi rimarrà inservibile. Fortunatamente la fessura accetta qualche chiodo e posso superare così anche lo strapiombo sovrastante dal quale scendono pericolanti alcune grosse candele gelate.
Il sole tramonta; tutto si solidifica, ma ormai manca poco.
Devo però chiodare in artificiale anche l'ultimo canalino, valutato 4° grado; è talmente ricoperto dal vetrato che fatico perfino a rimanere in equilibrio sulle staffe.
A notte inoltrata mi raggiungono anche Franco e Paolo tutto il materiale; poi il bivacco ed un altro nello stesso punto poiché per un giorno e due notti nevicherà ininterrottamente. Oltre 40 centimetri di neve fresca ostacoleranno infatti il nostro ultimo giorno di arrampicata; il quinto in parete.
Facili rocce inclinate, placche di impegno accettabile, camini accessibili si sono trasformati in un ammasso spaventoso di ghiacciò e roccia ma con un altro sforzo, un'ultima stretta di denti, superiamo anche questa inattesa difficoltà. Salgo l'ultimo tratto lungo gli innevati canalini di vetta che già notte, ma il sicuro riparo nella vicina stazione della funivia Punta Rocca mi rassicura.
L’avventura è finita. Sicuramente la mia più dura esperienza in montagna si e conclusa, lasciandomi però perplesso, anche se indicibilmente soddisfatto. Non mi aspettavo tanto impegno, seppure cercassi di non sottovalutare l'ascensione. Vorrei abbracciare l'amico Igor, per complimentarmi con lui, per dimostrargli quanto stimo l'intuito, la capacità che ha dimostrato nel 1981, quando Sustr ha tracciato questa via. Ma Igor è lontano.
L’abbraccio più caloroso mi viene però offerto dai miei compagni di cordata, da Franco e Paolo, che con me hanno combattuto e sofferto.
Una salita che ci ha visti uniti, nel facile e nel difficile; una salita che ci è riuscita solo grazie al nostro affiatamento, alla nostra preparazione, alla nostra forza di volontà. Una salita, la nostra salita.








 
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